Passioni: I videogiochi e i loro pericoli
Quando il virtuale diventa più vero del reale e si confonde
Possono fare davvero così male? Oppure possono anche educare?
Poco importa quando e come siano nati di preciso: così come è avvenuto con la letteratura, la pittura, il cinema, tutte le arti e le forme espressive, i videogames sono coevi al mezzo che li ospita.
Fin da quando esistono i computer – fin da quando erano enormi macchinari in ambiente sterile e condizionato, con sacerdoti in camice bianco che li servivano e li nutrivano a base di schede perforate –, fin da allora esistono giochi nel computer.
LA LORO STORIA
Vannevar Bush, padre della cultura ipertestuale, esplorando le possibilità combinatorie del sapere gettava le basi dei Mud e dei giochi strategici. Gli scienziati che in Usa negli anni Sessanta inventarono Life, sterminata simulazione del brodo primordiale, stavano giocando: che altro?
Certamente, una tappa decisiva nella storia sociale dei “giochi nel computer” è stato l’avvento del personal computer, con un’interfaccia caratterizzata dal video (“videogames”), dal mouse (poi anche dal joystick) e dalla tastiera. Sotto il profilo scientifico queste innovazioni risalgono agli anni Cinquanta: è del 1959 il primo computer dotato di monitor. E nel 1962 entra in scena Spacewar, elaborato dallo studente Steve Russell e poi ritoccato e ampliato da numerosi altri colleghi. Ma il panorama si amplia all’inizio degli anni Ottanta, quando si diffonde un piccolo computer chiamato Apple II. Anche Ibm non tarda a entrare in gioco, avviando l’era del DOS. Solitamente fra i giochi di quegli anni vengono ricordati con nostalgia titoli come Pong, Little Brick Out, Space Invaders, PacMan. Un’importanza almeno analoga hanno avuto giochi meno appariscenti ma sostanziosi, come le “avventure testuali” (delle quali una capostipite è la serie di Zork, nata nel 1981) che, senza valersi di immagini e tuttavia miscelando acutamente l’immaginazione del giocatore con la capacità di calcolo del computer, creavano i primi mondi virtuali a scopo di divertimento.
L’evoluzione dei videogames è proceduta di pari passo con le risorse tecnologiche: l’avvento dei floppy disc, dei dischi ad alta capacità, dei cd-rom, delle schede audio e video più sofisticate, la possibilità di collegare un computer all’altro e a una rete, hanno segnato altrettante tappe fondamentali, così come la contemporanea evoluzione delle consoles (Atari, Sony, Sega, Nintendo…) e delle “macchine da bar”.
Quanto a quest’ultimo aspetto, già nel 1984 in Usa il giro d’affari superava i quattro miliardi di dollari. Da molti anni, ormai, il fatturato del divertimento interattivo è superiore a quello del cinema, con costi produttivi che per un singolo titolo hanno superato i dieci milioni di dollari.
LA “REALTA” DEI NOSTRI GIORNI
Oggi i videogame sono un genere entro cui convivono specie fra loro diversissime e tutte prolifiche, che riempiono numerose nicchie dello svago ma anche della dimensione espressiva, mettendosi in concorrenza con le storie raccontate nei libri e nel cinema. Giochi come Monkey Island, Wing Commander, Doom, Quake, Civilization, Tomb Raider, Rayman, Fifa Soccer, Flight Simulator e tanti altri hanno caratterizzato di sé intere generazioni di giocatori, testimoniando della grande vitalità e popolarità che è propria del settore.
Sotto quest’ultimo profilo, paradossalmente, il vero limite dei videogames risiede nel loro stesso nome, o, meglio, nella perdurante assenza di un nome che sappia dar conto adeguato delle loro potenzialità espressive. Videogames? Computer games? Videogiochi? “Giochini”?
Il cane si morde la coda: quando il capolavoro verrà, non sarà più un videogame: sarà qualcos’altro, e allora sapremo che cosa.
Intanto, i videogiochi hanno sviluppato un’economia sommersa, oltre che un vorticoso giro d’affari: che chi la alimenta in maniera tanto considerevole lo fa per diventare qualcuno, per affermare il proprio io, sia pur nel mondo virtuale dei videogiochi.
PRO E CONTRO
Nel frattempo, si susseguono le denunce dei pericoli legati ad essi: essenzialmente la sensazione di spingere anche nella vita reale a comportamenti violenti e il pericolo di attaccamento eccessivo, una vera e propria sindrome.
Poi, la violenza ingiustificata, la volgarità, l’egoismo che spesso essi veicolano.
Ma allo stesso modo, anche se in tono ridotto, si parla pure delle valenze positive, in primo luogo il contenuto etico che essi spesso dispiegano nei loro svolgimenti e con ciò la potenzialità di far riflettere sulle regole etiche necessarie alla vittoria, oltre alla eccellente opportunità che essi offrono agli utilizzatori di attivare la propria creatività e l’acquisizione tecnologica di programmazioni avanzate.
Quindi, contrariamente a quanto comunemente considerato, i videogiochi offrano importanti opportunità di apprendimento e di socializzazione.
Infatti i videogiochi non devono più essere considerati solo uno svago o una perdita di tempo. Semmai, come sostiene una ricerca inglese, sono uno strumento che aiuta l'apprendimento, proprio perché sono costruiti con una serie di complessità così simili alla vita reale.
Questa la nuova ipotesi di una ricerca condotta dalla Brunel University di Londra durata tre anni. Se il mondo del videogioco è stato un po' penalizzato, i particolari dello studio indicano un'inversione di tendenza. Se i genitori, di fronte al tempo trascorso dai figli davanti ai loro Pc, si lasciano cogliere dalla preoccupazione, sappiano che non è solo un gioco: si tratta di qualcosa di più serio.
Lo studio inglese, che ha riguardato in particolare RuneScape, gioco di ruolo o¬nline dall'ambientazione fantasy simile ai noti Warcraft e Everquest, mostra nuovi punti di vista, per certi versi assimilabili al classico concetto pedagogico di «imparare giocando».
I videogiocatori sono in grado di sviluppare alcune utilissime capacità, e addirittura si possono preparare al mondo del lavoro. I ragazzi che per tre anni sono stati sotto osservazione, hanno dimostrato di aver sviluppato eccellenti capacità di gestione del tempo e un sano equilibrio fra svago e attività lavorativa. Il mondo di RuneScape prevede lo svolgimento di attività vitali per la sopravvivenza dei protagonisti. Il lavoro in miniera, o la costruzione di armi e utensili da rivendere, sono ottime opportunità per migliorare la propria avventura, e spesso è necessario sfoderare smaliziate capacità di scambio, ricerca, vendita e inventiva.
Non è tutto: il videogame offre anche la possibilità di nuove e inattese esperienze che sostituiscano i limiti di quelle reali, quando la quotidianità è limitata all'aula scolastica e al salotto di casa. Una giocatrice fa notare che fra le attività preferite del suo personaggio c'è quella di rilassarsi su un prato osservando i fiumi o le cascate, che «dal vivo» non ha mai potuto ammirare. Il gioco è un'attività complessa, e il videogioco lo è molto di più, arricchito da tutte le opportunità del mondo virtuale, con i suoi scenari di fantasia o realistici, le sfide tortuose e l'impegno richiesto. Se poi si gioca o¬nline, come nell'esperimento, si scopre un'intera comunità di appassionati con cui sviluppare rapporti umani. Questo porta a cancellare un altro pregiudizio, quello dell'isolamento del giocatore. I soggetti dello studio hanno dimostrato che la socialità non è un fattore a rischio, anzi, nuove possibilità si dischiudono in ogni comunità di giocatori. Spesso il videogioco per Pc è inoltre un ottimo modo per avvicinarsi alla tecnologia, e forse, per gli italiani linguisticamente pigri, anche uno stimolo e un esercizio nell'apprendimento dell'inglese.
Ancora, un provocatorio e per tanti versi sorprendente saggio di Steven Johnson “Everything Bad Is Good for You: How Today's Popular Culture Is Actually”, ( nella traduzione italiana, per i tipi di Mondatori: “Tutto quello che ti fa male ti fa bene”) prende in esame la cultura popolare attraverso i suoi consumi ed espressioni più diffuse, fra cui, ovviamente, appunto i videogiochi.
Il ragionamento parte da una constatazione evidente, a venti-trenta anni dal loro primo apparire e dalla loro rapida diffusione: se davvero fossero dannosi, come spesso ripetuto, i trentenni di oggi dovrebbero essere tutti e del tutto stupidi.
Invece, non è affatto così. Anzi, il quoziente medio intellettivo in Occidente è salito negli ultimi anni di ben tredici punti. I bambini sono abilissimi quanto mai prima nel capire e maneggiare strumenti e pensieri. Le espressioni della cultura popolare, in fondo, sono diventate così complesse e sfumate da stimolare e dunque accrescere le nostre facoltà intellettive. Così, nell’interpretazione di questo saggio, i videogiochi sono utili, perché insegnano a esplorare, fare ipotesi, operare scelte, prendere decisioni.
Internet è poi una vera e propria palestra della personalità, esercitato attraverso la comunicazione, la parola.
Non sono tesi inedite e nemmeno completamente fondate, cioè non sono la verità assoluta. Ma messe tutte quante così insieme, costituiscono una formidabile, positiva provocazione, perché, prese a una a una, mezzo per mezzo, quindi anche nella loro complessità di fondo, sono giuste.
Il pericolo, come sempre, è l’eccesso. Nell’insieme, il pericolo è non avere, o perdere i contatti con i riferimenti culturali maggiori, necessari, anzi indispensabili: non leggere, non studiare, non informarsi. Aver difficoltà ad esprimersi, poi, sia per iscritto, sia oralmente, non riuscire a farlo con correttezza ed efficacia è un altro pericolo derivante dall’abuso dei nuovi mass-media. Ma un’ora di videogiochi, per esempio, non fa male, anzi, i videogiochi ( lo abbiamo più volte documentato ) hanno anche valenze positive. Come non c’è nulla di male a guardare la televisione, un paio d’ore al giorno. Esaltarsi con internet, poi, ancora meglio. Ecco, questo saggio spiega perché tutte queste espressioni di cultura popolare, che comunemente e frettolosamente vengono considerate dannose, invece producono effetti buoni e hanno significati formativi. A patto di non abusarne, di non limitarsi a esse, o a una sola di esse, bensì facendone parte di un processo di formazione, di studio, di crescita culturale più ampio e dettagliato.
Un commento equilibrato quello della psicologa Anna Oliverio Ferrarsi, sulle tesi del saggio di Steven Johnson , in particolare sui videogiochi.
Ecco le idee della psicologa, docente di psicologia dell’età evolutiva all’Università di Roma: “La migliore palestra per sviluppare le varie intelligenze di cui siamo fatti è l’esperienza diretta. Comunque, bisogna distinguere. Se parliamo di bambini, bisogna fare differenze di età. I più piccoli hanno esigenze diverse degli adolescenti, il pubblico più appassionato di videogiochi. A quattro anni un bimbo ha necessità fisiche, affettive e spaziali che vengono meglio soddisfatte da altre attività, per esempio il disegno. Non sono affatto contro i videogiochi. Penso anzi che alcuni abbiano davvero il pregio di sviluppare certe capacità cognitive e logiche. Nei giochi migliori, e ce ne sono ormai tanti, bisogna tenere presenti più variabili allo stesso tempo, escogitare soluzioni e costruire oggetti. Il problema è che quella formale non è l’unica intelligenza. Ne abbiamo varie, per esempio quella del linguaggio, che nei videogiochi è per lo più ignorata... E’ solo la realtà, l’esperienza vera che ci fa più intelligenti”.